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LA VOCE CHE DISEGNA L’ORIZZONTE 

Conversazione con Naira Gonzalez
a cura di Veronica Tinnirello
edito da Editoria e Spettacolo

ATEATRO 
14 Gennaio 2007 

A cura di 
Fernando Marchiori

LA VOCE CHE DISEGNA L’ORIZZONTE

Ho conosciuto Naira González al suo arrivo in Italia insieme a César Brie. Usciti dall’Odin Teatret, giravano con un Romeo e Giulietta che lasciava a bocca aperta e già tiravano la cinghia risparmiando fino all’ultima lira per quel Teatro de los Andes che avrebbero fondato, di lì a poco, in Bolivia. “Noi non parliamo dei nostri spettacoli”, mise subito in chiaro César quando mi presentai, alla fine di una replica al Festival di Santarcangelo. Poi cominciammo a parlarne e da allora non abbiamo mai smesso. Naira rimase invece più evasiva, per sua natura o per fedeltà a un rigore appreso in Danimarca. O forse era solo molto giovane e in balia di vicende artistiche ed esistenziali che neppure le sicurezze tecniche dell’enfant prodige potevano farle comprendere a pieno. A diciannove anni può capitare di scoprire il teatro. A quell’età lei aveva già un’esperienza di tre lustri che ne faceva un piccolo mito tra i giovani attori. Ma era pur sempre una ragazza. E “quello spettacolo – leggo ora nella bella monografia che le edizioni Editoria&Spettacolo le dedicano – era una lettera indirizzata all’Odin scritta da un’adolescente disperata. È stato il gesto d’amore di un uomo innamorato a darle voce. In fondo il teatro è questo: tante lettere d’amore”.

Con questo sguardo finalmente distanziato e lucido, ma anche con la consueta ed energica ironia, Naira risponde a tutte le domande che V

eronica Tinnirello ha saputo rivolgerle in una conversazione viva, veloce eppure ricca di riferimenti a personaggi e situazioni non comuni: l’infanzia strappata tra il nomadismo artistico del padre e la militanza politica di una madre troppo presto desaparecida, il magistero di Iben Nagel Rasmussen, il sodalizio con César Brie, il carisma di Eugenio Barba, il teatro sull’altopiano boliviano e nei centri sociali in Italia, i seminari per giovanissimi aspiranti attori e quelli nelle carceri, le tournée internazionali e i piccoli interventi di teatro nelle osterie veneziane, fino al recente ritiro in Umbria con Massimiliano Donato in una casa-teatro che ospita workshop residenziali e produce spettacoli defilati e intensi in un contesto creato apposta “perché l’anima non venga distratta”.

Emerge così un ritratto dell’artista da giovane  e insieme il profilo tenace di una donna che il teatro ce l’ha nel sangue e che non smette di spargere il contagio, di mostrare che si può diventare “maestri di se stessi”, a patto che si sappia “scacciare tutti i fantasmi che abbiamo dentro e fare uno sforzo per buttar giù le pareti e vedere chi c’è dall’altra parte e ascoltarlo senza pregiudizi”.

Come i figli d’arte delle compagnie di giro d’un tempo, anche Naira González debutta bambina, a quattro anni, e cresce in quello spazio indefinito dove il mondo reale si confonde con i colori della scena e il vagabondaggio teatrale percorre i margini delle comunità umane. Eleonora Duse a quell’età era un’impaurita Cosetta nei Miserabili di Victor Hugo. Naira si traveste da animaletto in uno spettacolo del Teatro Runa diretto da suo padre. Il burattinaio argentino Edgar D

arío González, uno dei primi esempi di teatro non folklorico nella Bolivia degli anni Settanta, girava allora i pueblos boliviani, “luoghi sperduti, paesini poverissimi e polverosi con grandi teatri all’italiana lasciati dai colonizzatori a beffarsi della miseria. La maggior parte cadeva a pezzi…. Se teatri non ce n’erano allora allestivamo la scena all’aperto, anche fuori dalle miniere. I lavoratori correvano per vederci con i loro sacchi di carbone come poltrone”. Un gioco e un apprendistato che per anni la vedrà accanto al padre, anche dopo la scomparsa della madre in Argentina, vittima delle repressioni del regime militare.

Incalzante ma leggera, generosa nel lasciare sempre spazio alla voce di Naira ma a tratti complice e mimetica, la curatrice del volumetto ha trovato tono e ritmo giusti per far parlare un’artista comunque restia a “spiegare” i suoi spettacoli, a raccontare quelli cui ha partecipato. Un’interlocutrice che anche quando si lascia andare all’aneddoto sembra sfuggire o sfidare, che rilancia con risposte interrogative o enigmatiche. Eppure sa farci sentire le bocche impastate di polvere nelle tournée boliviane, la magia degli anni danesi con la scoperta delle proprie potenzialità attorali, l’unicità di esperienze teatrali ormai storiche. Ecco allora il celebre Talabot dell’Odin rivisto in una carrellata di immagini, quasi un rimontaggio personale attraverso le figure rimaste impresse nella sua memoria. Ecco il colorato e divertente Colón del Teatro de los Andes. Ma anche l’importanza del proprio lavoro di attrice e regista che ha voluto mettersi in disparte, tacere a lungo, cercare la propria strada. Perché Naira González vive di teatro ma può stare anni senza andare in scena. Negli ambienti teatrali tutti la conoscono, ma lei rimane rigorosamente estranea ai circuiti produttivi e distributivi istituzionali. Dopo le esperienze di Holstebro e Yotala, ha diretto a Venezia un proprio gruppo, Il 

cervo disertore, con il quale ha verificato vocazioni e obiettivi teatrali nei contesti più disparati, sempre cercando il contatto diretto con gli spettatori in situazioni non formali. Sono nati così spettacoli come Figli senza padri e Pediluvio. La vocazione pedagogica – eredità paterna messa a fuoco nelle esperienze europee e latinoamericane – l’ha portata a confrontarsi ben presto con attori e attrici spesso poco più giovani di lei, riuscendo anche perciò a instaurare relazioni artistiche e scambi umani, prima che professionali, di forte presa. Senza mai dimenticare che i giovani hanno bisogno di raccontarsi, che “non possono imporre un nome alle cose, ma si muovono soltanto con la forza dell’odio e dell’amore”.

Mentre cresceva l’idea dell’impresa umbra – un rudere con una chiesetta che, restaurata in proprio, è diventata la sala prove della compagnia – è nato un intenso lavoro su Pasolini che vedeva Massimiliano Donato dare corpo a un inquietante e angelico transessuale (Il fiore dell’orgia). Il ritorno in scena di Naira come attrice è invece più recente: Kronos Gelato. 331 modi di fermare il tempo debutta a Venezia nell’occasione di un omaggio della Biennale a Carmelo Bene e oggi può capitare di trovarlo in qualche coraggiosa rassegna periferica. Raccontandone la genesi, a partire da un testo di Luca Clabot, Naira ammette un’eredità che continua a sorprenderla, come se non avesse mai lasciato l’Odin, e riconoscibile nelle azioni fisiche e vocali, nel training, nel lavoro di montaggio sulle improvvisazioni, nell’avanzamento per metafore lungo il processo di scrittura scenica, nella violazione di quella stessa scena tanto precisamente definita, nel graffio che ne squarcia la visione (“Sì, alla fine lo spazio dev’essere sporco, ribelle”).

Ma la nuova consapevolezza dello straordinario percorso vissuto, la freschezza con la quale Naira continua a cercare il proprio teatro, nonché la sempre più intensa attività negli spazi del Centro Teatrale Umbro (sono centinaia i ragazzi che accorrono ai periodici seminari sulla scena e sulla voce) fanno presagire nuove strade per questa artista ostinata e indipendente, che sa usare e trasmettere le tecniche, e sa anche che non bastano, perché “una verticale a testa in giù possono farla cani e porci, ma per farla con coscienza bisogna prima di tutto avere un profondo desiderio di capovolgere la testa!”.